domenica 28 luglio 2013


Festival del Faiallo 2013

 The lonesome pines

Fare un po’ di folk con simpatia e senza tirarsela. Giusto due cappelli da cowboy per evocare la scena e l’armonica a bocca per i momenti più intensi.
I fratelli Oliveri hanno lo spirito giusto nel seguire la strada indicata dai loro mèntori, siano un Johnny Cash, un Dylan, uno Springsteen o un Neil Young.
Non rischiano il confronto neppure da lontano, non ne avrebbero la verve. Tuttavia finiscono per convincere grazie ad un approccio onesto.
Si alternano alla voce riproponendo una serie di standard country-folk, ben supportati dalla batteria di Marco Poggio, avvezzo a suonare con le spazzole.
Fare poco, farlo bene: questo potrebbe essere lo slogan della band. La sorpresa però arriva quando tra un brano e l’altro della tradizione americana propongono le loro ballate: un occhio al sociale, qualche bella immagine e nonsense, con qualche rinforzo negli arrangiamenti queste canzoni piacerebbero a uno come Massimo Bubola.  


                                                                                                                     Carlo Rovello

sabato 2 febbraio 2013

Intervista a Giovanna Marini in occasione del nuovo lavoro del gruppo A brigà dedicato ai canti partigiani





  • Bella ciao è indiscutibilmente la canzone simbolo del repertorio partigiano. Aldilà della sua effettiva diffusione nei 20 mesi della Resistenza, a cosa deve la sua popolarità? Ce ne parla un po’ da un punto di vista strettamente musicale?

Dal punto di vista musicale posso dirvi solo che Bella Ciao è una bella melodia in minore  composta da una  prima idea  simile ad un richiamo, scala ascendente con un intervallo di quarta iniziale che non a caso si chiama “incitativo” perché ha sull’ascoltatore un effetto propulsore, di incitamento e quindi  trascina, se ci fate caso ogni inno comincia con una bella quarta: Avanti Popolo, la Marsigliese, L’Internazionale....E tanti altri inni anche di chiesa, E’ l’ora che pia, ecc.
La fine di questa prima cellula musicale con un richiamo delle ultime tre note, in ascendneza e discendenza, ripetuto per tre volte con l’ultima quarta nota iterata  “ciao- ciao-ciao” crea già una suspense musicale che forse è la fortuna del canto, la stessa frase di proposta viene ripresa in accordo di sottodominante, se si parte in LA minore riattaccata in RE minore ( le melodie in minore hanno sempre più fascino di quelle in maggiore); dopo di ché  segue la risposta  simmetricamente ma rovesciata, in scala discendente  e il tutto viene chiuso con una finale tipica di ogni conclusione, con la tonica finale preceduta da un passaggio alla dominante – tonica, fine.
L’insieme è semplice, ma composto da elementi di sicuro successo, questi che vi ho elencato.
La melodia può sembrare slava, per l’ostinato minore combinato con un monosillabo incalzante e incitativo  “ciao-ciao-ciao” e con un testo tutt’altro che nostalgico , un testo di tipo battagliero. Questo insieme  è molto evocativo di giovinezzae coraggiose e  generose,  di amori disperati e separazioni dolorose, di temi epici, insomma  evocanti eroismo e solidarietà, temi che catturano immediatamente il cuore e l’attenzione del pubblico.
Insomma, nell’insieme,  è semplice come tutte le cose che piacciono, e pensata bene.

  • Roberto Leydi ha proposto una classificazione della canzone partigiana secondo macrosettori di derivazione. Bella ciao ha un substrato popolare, con modificazione del testo e adattamento ad una diversa linea melodica. In particolare originerebbe da una sommatoria di canzoni popolari quali “Il fiore di Teresina”, “Fior di tomba”, “Stamattina mi sono alzata”, ecc. Viene spontaneo, in parallelo,  ricordare il caso analogo di “Amara terra mia” di Domenico Modugno, rispetto al popolare “Addio addio amore”. Anche se lei non si definisce etnomusicologa bensì musicista, cosa può dirci in proposito?

Certamente il Bella ciao ha nel suo testo chiari elementi di testo classico tratto da ballate epico liriche: la tomba sulla quale nasce un fiore, citato in tante ballate, come Fiore di Teresina, Nella Città di Genova e altre, è un uso frequente del canto popolare quello di veicolare parti di testo con immagini precise che diventano come le frasi idiomatiche,  icone da trasferire da un testo all’altro, questo sta solo a significare che Bella Ciao è un canto popolare e come tutti ha subito tante trasformazioni durante  le varie fasi della vita di un popolo.

  •          Lei è nota per aver introdotto dei “falsi popolari” che ebbero grande successo. Come consiglierebbe di approcciarsi oggi alla rilettura del repertorio popolare?

I miei falsi popolari derivano dal bisogno di esprimere concetti e sentimenti  che provo e riconosco  come  banali ed epici ad un tempo; cioè provati da tanti in precisi momenti storici che ci portarono ad aver bisogno di esprimerli anche per gli altri che non lo facevano: l’entusiasmo che abbiamo in tanti provato durante il 1968 quando i giovani insorsero contro l’autoritarismo, la bigotteria e il conformismo che la società aveva sempre fino allora adottato come schema normale di gestione per la vita familiare, scolastica e sociale. L’ipocrisia adottata come “buona educazione” nella vita di coppia come nei rapporti con insegnanti  e persone di potere, tutto quello che  fino ad allora la società aveva accettato per quieto vivere generale e che aveva funzionato fino ad allora, nel 1968 venne buttato per aria  e messo in discussione per sempre. Molte cose sono cambiate con il 1968 e sono state per sempre bandite, e non tutte  erano inutili come poi si è scoperto, ma ormai la vita sociale si era abituata ad accettare i cambiamenti e si è andati avanti  con qualche rimpianto, credo, forse inespresso, per i comodi  rimedi e sotterfugi oramai caduti di moda e non più usabili. Tutto si è adeguato  al nuovo  impianto della vita sociale post-sessantottina con qualche “restaurazione” certo, ma in sostanza è cambiato.
Questa lunga digressione per dire che il bisogno di raccontare e commentare questo in canti semplici, facilmente riproponibili, come l’antico canto popolare riaggiornato che sempre di questi temi ha parlato mi ha portato a scegliere la formula popolare nella composizione delle mie prime canzoni. Per cui ecco il mio Addio addio amore che proviene sicuramente da un canto abruzzese sentito chissà quando e chissà dove, magari sul Gran Sasso sciando, e il mio Morte di Gesù, ripreso decisamente da quello ascoltato a casa Leydi e non più ritrovato per cui  la necessità di riscriverlo un po’ abborracciato ma in sostanza su quello schema preciso, ecc. Lo stesso per La terra nostra,e O padrone non lo fare che è il finale della mia ballata Vi parlo dell’America e qualche altro mio canto falsopopolare. Questi temi poi li mischiavo con musica invece decisamente inventata creando una confusione non facilmente districabile. Me ne devo pentire? Non lo so e non ci penso, la musica parla, è fatta anche per raccontare, e per me l’importante è che lo faccia.
Per me è stato l’inizio dello scrivere musica, era il mio mestiere che amavo e già  avevo scritto per teatro e colonne sonore di film, ma mai avevo usato voci e parole e questo salto me lo fece fare proprio l’ascolto cominciato con la conoscenza di Roberto Leydi di tanto materiale popolare: cantori come la Daffini e la Viarengo e le mondine e i cavatori di marmo e via dicendo che avevano sconvolto e rivelato che c’era un altro modo di fare musica altrettanto  se non più affascinante ed espressivo di quello che avevo usato fino ad allora da musicista uscita dal Conservatorio e dal corso di Composizione da cui fuggii dopo i sette anni  fra Armonia Principale e  Contrappunto, bellissimi ma per me conclusivi.

  •          Durante le sue interpretazioni qualcuno parla di “stonature”. Lei si è dedicata molto alla didattica della musica popolare. Si tratta di un uso non temperato della voce, una sorta di marchio dell’esecutore-fruitore? Ci spiega un po’ questa complessità?

Non sapevo che si parlasse di mie stonature. Certo è molto possibile che il mio amore un po’ da neofita per il canto popolare, quindi non temperato, mi abbia portato ad esagerare nel buttare lì la nota in un modo che tra approcci e melismi le fa perdere la sua cristallina intonazione come deciso dal temperato con il LA  a  442 Hz. Il mio la è ancora a 415 e su questo non posso fare niente perché la nota, all’ascolto, io la sento sempre a 415 e mi sembra che mi dica il suo nome, per esempio, invece di sentire “Questa mattina mi sono alzata”, io sento MI LA SI DO LA MI LA SI DO LA, e non c’è niente da fare ( le parole le capisco dopo); ora lo sento tutto un semitono sopra. Ma questo non c’entra con lo stonare, c’entra però nell’accettare il fatto che in musica tutto è relativo, e se uno vuole sentire le note sempre pure e semplici, “azzeccate” sul loro grado senza esitazioni, secondo me si perde il grande gusto che danno  i quarti di tono ricomposti poi sull’accordo finale, i ritardi esagerati fino allo sfinimento con calature e alzature che portano il semitono di differenza ed urto fino quasi al congiungimento sull’unisono, come un corteggiamento tra spasimanti, che poi invece si riallontana e lascia lo spazio di suono voluto tornando al suo posto sulla scala diatonica, tutto questo aggiunge spasimo e patos alla musica cantata e non resisto alla tentazione di farlo, quindi continuo scientemente a “stonare”, è una gioia, un vero piacere .

·                              Ha un ricordo particolare di qualche sua esecuzione di “Bella Ciao”? Vuole raccontarcelo?

Sì, quando cantavo con De Gregori preparando il nostro disco il Fischio del vapore e in un momento di riposo durante l’incisione del disco, cantavo  a Guido Guglielminetti, il capo band di Francesco De Gregori delle canzoni popolari per fargli sentire quanto erano belle, mi capitò di cantargli il Bella Ciao come lo cantava Giovanna Daffini, la prima che l’ha svelata a tutti questa bella canzone, e Guido intanto faceva registrare ma non lo sapevo, quando  me l’ha fatta ascoltare mi ha colpito perché gliel’avevo cantata come mai l’avevo cantata prima,  insomma avevo imitato proprio il modo di cantarla di Giovanna Daffini per fargliela capire bene, senza enfasi, piano piano, lenta e sottovoce, è mi è piaciuto, fino ad allora avevo sempre cantato il Bella Ciao partigiana che è diverso nel testo e nel sentire, e pensare che questo è successo nel 2002, mentre la Bella Ciao la  cantavo dal 1965, questo a dimostrare quante cose nasconda il canto popolare e quanto si impari e ci si sveli a riproporlo, maneggiarlo, studiarlo, riascoltarlo, trascriverlo e ripensarci ancora, fino alla vecchiaia.
E’ stata proprio una bella cosa per me.

Carlo Rovello
02/02/2013